di Donato D’Urso
Tra i settantotto ardimentosi che, il 23 ottobre 1867, si batterono senza fortuna a Villa Glori c’era il ventenne friulano Pio Vittorio Ferrari, uno dei più giovani del gruppo composto prevalentemente di lombardi, veneti e romagnoli.
Nato a Udine il 25 novembre 1847 Ferrari era rimasto presto orfano di padre e aveva trascorso otto anni in un collegio retto da religiosi. Ebbe modo di accedere agli studi superiori e laurearsi. Ancora studente visse la più emozionante e drammatica pagina della sua vita: la spedizione a Roma con i fratelli Cairoli. L’episodio, militarmente minore, è ricordato come uno degli esempi più alti della straordinaria passione patriottica della gioventù italiana di quel tempo. A distanza di più di trent’anni, Ferrari pubblicò il libro Villa Glori: ricordi ed aneddoti dell’autunno 1867. Nel testo le vicende vissute sono rievocate in stile piano e coinvolgente, senza ricorrere a eccessi retorici come capita talvolta ai reduci.
Nel settembre 1867 le iniziative garibaldine avevano fatto salire in Italia la temperatura politica. Il Nizzardo progettava di compiere una spedizione su Roma, ma fu arrestato dai carabinieri a Sinalunga in Toscana e tradotto prigioniero ad Alessandria (Garibaldi nella cittadella di Alessandria, in «Camicia Rossa», gennaio-aprile 2010). Rilasciato dopo qualche giorno, rientrò a Caprera per nulla rinunciatario.
Pio Vittorio Ferrari, acceso di amor patrio, decise di andare a combattere e, per eludere la vigilanza della madre, s’allontanò da casa in abito da sera, guanti e gibus, come se si recasse a un ricevimento. Prese in prestito del denaro e raggiunse Benedetto Cairoli e altri che cercavano di inquadrare giovani ardenti, poveramente equipaggiati e male o per nulla armati. Oltretutto, un dubbio serpeggiava: i patrioti romani sarebbero riusciti a provocare nell’Urbe un moto insurrezionale, per favorire l’intervento armato dall’esterno?
Ferrari, per osservare di persona lo stato delle cose, raggiunse Roma in incognito. Nella Città Eterna si trattenne qualche giorno senza, però, risultati pratici, mancando segnali o contatti utili. Vide papa Pio IX che, uscendo dalla chiesa di San Marcello al Corso, fu salutato con grande calore dalla folla tanto che, sinceramente sorpreso, non mancò di pensare: «Che siamo venuti noi a fare in Roma? La rivoluzione?». Si domandò se il popolo capitolino volesse davvero ribellarsi all’autorità papale.
Ferrari raggiunse poi Terni, centro di raccolta dei volontari, a non grande distanza dalla frontiera pontificia. Durante il mese di ottobre i piani garibaldini presero maggiore concretezza e fu affidato a Enrico e Giovanni Cairoli il compito di guidare una spedizione, risalendo il Tevere. All’interno dell’Urbe erano programmate altre azioni: un manipolo guidato da Francesco Cucchi doveva dare l’assalto al Campidoglio e occuparlo; un altro gruppo aveva l’obiettivo di attaccare il corpo di guardia in piazza Colonna; Giuseppe Guerzoni con un centinaio di uomini doveva forzare porta San Paolo per introdurre armi in città; Francesco Zoffetti e altri cannonieri avevano la missione di inchiodare le artiglierie di Castel Sant’Angelo così da renderle inutilizzabili; infine, doveva essere minata la caserma Serristori occupata dagli zuavi.
Intanto Garibaldi s’era allontanato da Caprera, sfuggendo rocambolescamente alla vigilanza della marina italiana. Tra sfrenati entusiasmi, raggiunse Firenze e poi il confine pontificio. Nel sud del Lazio penetrò la colonna guidata da Giovanni Nicotera, nel nord operò l’altra al comando di Giovanni Acerbi.
La comitiva dei fratelli Cairoli si mosse da Terni la sera del 20 ottobre 1867 e raggiunse due giorni dopo la zona di ponte Milvio, dove attese invano comunicazioni o segnali insurrezionali dalla città. Cosa era accaduto?
Guerzoni, sul luogo del convegno a porta San Paolo, invece di cento compagni ne trovò solo sette e, dopo breve lotta, dovette abbandonare il carico d’armi. L’assalto al Campidoglio fallì, quello a piazza Colonna non fu neanche iniziato, perché i rivoltosi furono dispersi prima. L’eseguito attentato alla caserma Serristori ebbe minori effetti del previsto, poiché parte della truppa era assente. Le varie azioni programmate fallirono anche perché se ne era parlato troppo e la polizia era in allarme. Le autorità pontificie ebbero il tempo di far murare sei delle dodici porte della città. Rimase rimarchevole l’episodio accaduto al lanificio Ajani in Trastevere dove, nello scontro a fuoco con i soldati, morirono Francesco Arquati, la moglie Giuditta Tavani, tre loro figli e quattro compagni.
Il mattino del 23 ottobre 1867 il gruppo Cairoli, del cui arrivo non è chiaro se fossero consapevoli i patrioti romani, si spostò verso i monti Parioli, attestandosi nella Villa Glori (che prendeva nome dal proprietario noto ingegnere). Non c’era ormai possibilità di arrivare in centro città né di tornare indietro.
Nel pomeriggio di quel giorno i garibaldini furono attaccati da zuavi e gendarmi. Caddero uccisi Enrico Cairoli e l’amico pavese Antonio Mantovani, rimasero feriti Giovanni Cairoli, Pio Vittorio Ferrari, Edoardo Bassini e altri. L’episodio è raffigurato in un dipinto di Carlo Ademollo. Cessato lo scontro, chi aveva bisogno di cure mediche fu portato all’ospedale di Santo Spirito, mentre finirono nelle Carceri Nuove e in quelle di Castel Sant’Angelo i garibaldini che non erano riusciti a disperdersi.
Ferrari ricordò con riconoscenza chi l’aveva assistito durante il ricovero, anche se un religioso aveva provato insistentemente a fargli rinnegare le convinzioni politiche, per salvargli l’anima. Dopo qualche settimana i superstiti furono rimpatriati sotto scorta armata. Erano mal ridotti, a cominciare dall’abbigliamento e ricevettero epiteti poco benevoli da parte di ufficiali francesi, che li appellarono canaille.
Celso Ferrari descrisse il padre Pio Vittorio come letterato, scrittore, poeta, cultore della legge e ne ricordò le opinioni politiche “moderate”. Conclusi gli studi, il giovane friulano non a caso s’avvio alla carriera burocratica nell’amministrazione incaricata di difendere le istituzioni e l’ordine, cioè il ministero dell’Interno.
Negli anni i superiori gli affidarono – segno di particolare fiducia e considerazione – delicati incarichi ispettivi o di amministrazione straordinaria, in Romagna, Sicilia, Calabria e nella capitale. Giudicato funzionario preparato, competente e di assoluta fiducia, a 57 anni Pio Vittorio Ferrari fu nominato prefetto con destinazione, dal 1° luglio 1904, la provincia di Massa-Carrara. Vi rimase oltre sei anni, tempo insolitamente lungo, a dimostrazione del felice ambientamento e della mancanza di inciampi quali erano, soprattutto in età giolittiana, fatti perturbatori dell’ordine pubblico o clamorose bocciature alle elezioni di candidati governativi.
Dopo essere stato ad Ascoli Piceno, concluse la carriera ad Arezzo, dove arrivò nell’agosto 1912 e rimase quattro anni. Tenuto per un anno a disposizione, fu collocato a riposo nell’agosto 1917, alla vetusta età di 70 anni. Era insignito dell’onorificenza di Grande ufficiale dell’ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro.
Ferrari fu anche sindaco di San Giorgio di Nogaro e consigliere provinciale. Morì a Massa il 10 febbraio 1920. Nell’ottobre 1962 gli fu intitolata a Roma un’area di circolazione presso Villa Glori.